venerdì 29 ottobre 2010

Caro nonno silvio...

Caro nonno silvio,
sono un ragazzo palestinese e ti scrivo perché sono rimasto commosso dalla disinteressata generosità che hai dimostrato nei confronti della ragazza marocchina Ruby. Anch'io sono minorenne come Ruby anzi, a dire il vero, ho solo 12 anni e solo pochi giorni fa sono sbarcato a Riposto da un barcone di immigrati provenienti dalla Palestina. Non ti voglio rattristare col racconto della mia vita in Palestina e con le peripezie che abbiamo dovuto passare per arrivare in Sicilia. Ma devi sapere che a Riposto siamo stati fermati dalla polizia e condotti al Palasport di Catania dove non è stato permesso a nessuno di visitarci. Vane sono state le proteste delle associazioni umanitarie italiane ed internazionali. Dopo poche ore sono stato diviso da mio padre e condotto in una comunità per minori mentre la mia famiglia è stata rimpatriata. Come forse sai noi Palestinesi siamo un popolo forte ed orgoglioso e, quindi, non ti chiederò denaro, né tanto meno gioielli o auto di lusso, ti chiedo solo di farmi riunire alla mia famiglia. Sono sicuro che farai di tutto per aiutarmi così come hai fatto con Ruby e con un'altra ragazza napoletana di cui non ricordo il nome.
Tuo
Yasin

Serietà dei CASINI

Casini, come ognuno sa, è sostantivo di nobile tradizione: così erano chiamate, con spiccia sobrietà, le gloriose “Case di tolleranza”, cioè quelle dimore estrose che curavano (è il caso di dire) le primizie sessuali dei giovani maschi (la specificazione aggettivale non sorprenderà il lettore accorto, con i tempi che corrono!). Vi sostavano le “signorine” offerte al nobile compito di quella iniziazione e del suo immancabile seguito biografico. A guidare la Casa era una signora proprietaria dei locali (o anche soltanto affittuaria ben pagante). Le signorine, invece, ruotavano: c’era la famosa “quindicina”, ossia la permanenza media delle officianti nello stesso “sito”: 15 giorni. E quando arrivavano le bolognesi si scatenava un piccolo tripudio nella tribù degli aficionados: avevano fama, quelle fitting and fizzy girls, di eccezionale bravura in certa cinetica della caverna facciale (vulgo, cavo orale).
Ma Casini è anche il nome di un nostro politico di gradevole aspetto, ma afflitto da un morbo contagioso: il presenzialismo loquace. Tanta passione lo vede protagonista di puntuali commenti ai fatti politici del Paese. In tali exploits il Nostro usa spesso la parola “serietà” e i suoi derivati: serio, seria,... L’avverbio “spesso” significa che in una sola intervista ti può condannare a leggere quel “composto” magari dieci volte. Prendiamo quella riportata dal Corsera del 18 ottobre, che tuona al centro della prima pagina con un titolone perentorio: Casini: mai con questo Pd, il cui “occhiello” spiega: “Parla il leader Udc dopo i cortei della Fiom”. “Se seguono la piazza, alleanza impossibile”. L’incipit del servizio suona ancora parole del Casini: “Se l’idea dell’opposizione è quella di creare un’alternativa partendo da piazza San Giovanni, allora siamo fritti. L’Udc non si allea con il Pd se queste sono le loro posizioni”. Avere avuto militanti al seguito della grande sfilata della Fiom (la sezione metalmeccanici della Cgil) che ha riempito la famosa piazza non è stata una cosa seria, per Casini. E lui con le persone frivole non tratta. Ed ecco la prima entrata in scena della paroletta seduttiva (mal servita, tra l’altro, da una scarica di “che” pronome relativo) intenta a frugare nei due schieramenti avversari alla pesca della serietà: “Il Paese si rilancia mettendo insieme a governare le persone serie che nel Pd sanno che seguendo le piazze non si va da nessuna parte, e persone serie del Pdl che non ne possono più di dover sottostare ad un patto in cui è la Lega che dà le carte”. A pg. il seguito dell’intervista premia l’aggettivo magico dentro un titolone a pagina intera e virgolettato: “Appello ai moderati dei due fronti Portiamo al governo le persone serie”. Sotto il titolo in senso stretto, il “catenaccio” specifica: “Casini: niente alleanze con questo Pd, Enrico Letta, Pisanu, Fitto e Follini venite da me”. Incalzato, Casini spiega e chiarisce: salvato il “rispetto” per “le persone oneste” e i “lavoratori che hanno sfilato pacificamente”, è dovere di un leader moderato segnalare la contraddizione implicita nel partecipare a una manifestazione Fiom “proprio nel momento in cui l’esperienza dell’alleanza Lega-Pdl sta arrivando al capolinea, e la gente si sta accorgendo che Berlusconi è bravo a vincere le campagne elettorali ma non a governare”. Danno fastidio alla vibratile sensibilità del Casini “gli slogan e le idee di quella manifestazione” da “Anni 70”, nonché “i manifesti che indicavano come bersagli Bonanni e Marchionne” Né gli piace (a parte il “rispetto” cui noblesse oblige) Nichi Vendola, un amico, per carità, ma anche un estremista che osa accusare il Capitalismo (la maiuscola in conto Casini) “di avere depredato la gente”: si può essere più frivoli di così?, pensa Casini. Qualche speranzella, però, il Bello di casa ce l’ha ancora, visto che ha sentito “Bersani dire che imprenditori e lavoratori sono sulla stessa barca”. Ma una speranzella non è un atto di fede: Bersani non è serio abbastanza, dà “un colpo al cerchio e uno alla botte, posizione che non ha grande respiro”. Insomma, se la “sinistra moderata” vuol essere “parte costitutiva seria” (e dàgli!) dell’alternativa a Berlusconi, “non basta non partecipare al corteo della Fiom” (merito di cui si dà atto al leader Pd). Come non sufficit che Vendola sia “un interlocutore importante sulle regole”, perché “sul piano programmatico è ben lontano dalle stesse posizioni della sinistra europea come la conosciamo in Germania, Francia, Inghilterra”. Non resta a Pierferdi che auspicare una santa alleanza tra le “persone serie” invocate nel titolone. Se poi l’intervistatore gli fa notare che con la sua insistenza sulle “persone serie” il patron dell’Udc “si sta augurando una rottura nel Pd dopo quella avvenuta nel Pdl”, non senza sottolineare che questo “non è un bel modo per convincere Bersani a cambiare rotta”, Casini svicola, scivola, come un’anguilla bagnata nelle mani del pescatore. E, scivolando, cade nel ridicolo éclatant: “Io mi auguro che il Pd scelga, come mi auguravo che il Pdl scegliesse, non che si spaccasse”. L’ingenuo! Suggerisce ad ogni battuta la rottura e nega di augurarsela! Ma la serietà del Casini non si profila soltanto in queste puerilità, è più tosta, e scocca ben altre frecce dal suo arco polemico. Serietà alla Casini significa un bel po’ delle seguenti postulazioni: non è lecito attribuire disastri al Capitalismo; non si devono dare dispiaceri ai signori padroni; le trattative lavoro-patronato devono ripetere ad infinitum il modello Pomigliano; Marchionne è un galantuomo, e nessuno si deve permettere di criticarlo (o peggio, mandarlo al diavolo, magari con la scusa della... presunta somiglianza fisica); il collateralismo partito-sindacato è una sorta di incesto politico; le periodiche, e puntuali crisi finanziarie sono dovute esclusivamente all’ingorda ingenuità di pochissimi speculatori; anche soltanto evocare lo sciopero generale è una bestemmia politico-sociale (forse anche religiosa? dove se ne va la mitezza evangelica?). Nell’attesa di eventuali ulteriori implicazioni, proviamo a sbucciare le suddette. Il capitalismo “casinaro” diventa una res sacra, una specie di nuova Ecclesia governata da un’originale e sottintesa nuova Bibbia: tali i toni del j’accuse udc(inico) contro i suoi contestatori. I padroni sono perfusi della sacralità del Pensiero unico maiuscolato: sacri anch’essi. Bisogna chiedere con grata umiltà quando ci si rivolge alla loro paterna disponibilità. Fermo restando che se essi non concedono quanto è appetito dai postulanti, ciò non rivela una qualsiasi loro insensibilità verso i sottoposti (quale fitness in questo malinconico aggettivo!), ma soltanto un’impossibilità oggettiva. E dunque è dovere dei lavoratori accettare le eventuali briciole concesse dal padrone come il massimo che egli possa fare in quel dato tempo e in quelle condizioni economico-sociali. Pomigliano non ha dato quanto richiesto dai lavoratori, ma pur tra mugugni di taluni e parolacce in pectore, si è accettato quell’accordo come l’unica soluzione possibile nel contesto della santa globalizzazione. Non dimentichino, gli operai e i signori leader sindacali, che un capo aziendale deve garantire profitti all’azienda, costi quel che costi. Se non riesce a farlo in patria, fila all’estero, Serbia, Romania o Cina che sia: c’è per nulla l’altra santità, la faccia globale del nuovo liberismo?
Esageriamo? Non credo: la serietà sventolata come sacro vessillo dal genero del miliardario Caltagirone cela quelle implicitezze. La moderazione dei moderati alla Casini è un pungolo che ferisce, con la punta rivolta verso i lavoratori. Come tutti i dogmatici, il Casini chiude gli occhi davanti alle evidenze oppositive: le crisi finanziarie, e dunque economiche e sociali (spesso drammatiche fino all’epidemia di suicidi: lo sa Casini, quante vittime da disperazione ha già fatto l’ancora non cancellata attuale crisi?) sono state, e saranno, una costante della storia capitalistica: a scatenare l’ingordigia caca-crisi (se mi si scusa l’energica cacofonia) è la natura stessa del capitalismo, ben riassunta nel motto settecentesco enrichissez-vous, arricchitevi, ma i signori dogmatici del liberismo sono come i credenti religiosi: tutta la storia infame della non benedetta umanità nega i postulati di qualsiasi religione che supponga un Dio giusto e misericordioso, e altrettanto recita la Natura con le sue mille schifose malattie e i non meno torvi disastri ambientali, ma non per questo il numero dei credenti scema (tanto meno quello dei fanatici assassini di certe fedi intolleranti e militanti, Islam in testa). Ogni disposizione emozionale fideistica pratica la serietà casiniana. Un campione frenetico di siffatto liberismo è l’ex direttore del Corsera, Piero Ostellino, che scatta a sua difesa ad ogni stormir di fronde avverse: l’ultima sua discesa in campo è un intervento apologetico su quel giornale (del 20. 10) come risposta al suo amico Guido Rossi: lo ringraziamo per l’esplicitezza del titolo: Perché la crisi finanziaria non è una crisi del capitalismo. Gli argomenti sviluppati in questa difesa sono i soliti: li abbiamo criticati in altre occasioni. Quanto alla psicologia dei grandi manager, l’ha esposta spavaldamente proprio quel Marchionne sopra non lodato nella trasmissione Che tempo che fa, spiegando a Fazio come qualmente l’Italia sia, per la Fiat, una sorta di palla al piede. Ecco un titolone del Corsera del 25. 10: “L’Italia un peso per la Fiat”. E le ispirate parole del supermanager: “La Fiat ha fatto due miliardi di utile nei primi nove mesi 2010 e nemmeno un euro viene dall’Italia [...] Se potessimo tagliare l’Italia faremmo di più”. Ecco, insomma, un chiaro caso di serietà casiniana. Soltanto, un po’ più sincero, e perciò più cinico e provocatoriamente brutale. Ma questa è l’essenza del capitalismo schietto: monetizzare la vita, elevare il profitto al vertice di un’assiologia mammonica. Ai deboli, agli operai, briciole, e salate di fatica eccessiva. Il Marchionne è ancora disponibile per un’ulteriore pennellata al delizioso quadretto: ha stracciato l’accordo di Melfi riducendo di 30 minuti le pause, insiste nell’imporre il modello Pomigliano, perfino peggiorato, alle altre fabbriche. E via celebrando Mammona Pantocrator. Le reazioni? Tolte quelle della Fiom, vibrate e oneste, il resto è acqua tiepida (Bonanni) o spudorata condivisione. Ecco i fuochi pirotecnici del vicepresidente di Confindustria, dal cognome-omen, Bombassei: “Ho sentito cose del tutto condivisibili. Marchionne avrebbe potuto dirne molte di più”. Ancora: “Le questioni che la Fiat ha posto a Pomigliano d’Arco rappresentano una svolta per l’intero Paese. Non penso tanto alla questione dei dieci minuti di pausa, non è su quel terreno che si gioca la questione dei diritti. Penso piuttosto che Pomigliano sia l’occasione per sconfiggere una cultura, quella dell’antagonismo nei luoghi di lavoro”. Capìta l’antifona? Gli operai si rassegnino: niente antagonismi, solo accettazione dei diktat padronali. Sennò come convincere gli investitori stranieri “a scommettere sull’Italia” ed evitare che le nostre aziende “fuggano all’estero”? Insomma, sgobbare di più e ...mangiare di meno. E che sia la politica a fare eventuale beneficenza per i minus edentes.
Alla serietà casiniana, naturalmente, sarebbe troppo facile associare quella della stragrande maggioranza dei nostri politici moderati. Per esempio, la serietà guerriera del Fioroni, che scatta su un metaforico “attenti” di battaglia per dichiarare papale papale un ghe pensi mi di marca arcoriana: insomma, s’impegna a vigilare perché il Pd non cada in tentazione: Fioroni: impedirò che il partito scivoli a sinistra! (Corsera, 19. 10). Questo enfatico fiore di cattolico panciuto predica la tolleranza (francescana?) a chi tenta di salvare lavoro e famiglia, magari fino a provare con lo sciopero generale (torva bestemmia da anni settanta, secondo la serietà bacata dei signor Casini e assimilati!). Un mese fa il signor Beppe promosse un “movimento” dentro il Pd per compattare i cattolici doc del partito, allarmati da certe sensibilità di sapore “eretico-sinistroide”. L’iniziativa suscitò un largo coro di commenti negativi nell’ibrido partito: vi si avvertiva, fondatamente, il cattivo fiato della potenziale scissione. Ma il campione si difendeva con verbosa energia: “Io provengo da quel grande partito popolare di massa che era la Dc: per noi i documenti politici che proponevano soluzioni, indirizzi e una linea erano il pane quotidiano della partecipazione democratica. Non ho memoria di documenti politici che, anche in periodi più caldi di quello attuale, siano stati oggetto nell’allora Democrazia cristiana di anatemi, scomuniche e censure”. Oratoria vibrante di passione missionaria, come si vede, che ha un suo culmine nel passo seguente, dove si punta il dito contro i censori interni: “Un ragionamento politico che mette in movimento idee, aperto al contributo di tutti, può minare l’unità solamente in chi ha l’ossessione del pensiero unico o in chi non riesce a superare l’idea che il partito è la sua maggioranza [...] Non si può venire aggrediti e linciati per un documento di proposta politica. Non c’è un partito al mondo che non riterrebbe la nostra iniziativa un arricchimento e un contributo”. Tanta eloquenza per un’esile sostanza: aiutiamo i deboli, ma non diamo dispiaceri a Sua Santità e sacro Seguito!
Il peggio di questa trovata è che ha come primo motore l’ex segretario Pd, Veltroni, un altro moderato: onesto, in verità, ma poco accorto. Anche se da un po’ di tempo sta frenando la pulsione politicamente suicida. Ed evita di fare visite di cordoglio ai segretari di Cisl e Uil. A consolare Bonanni degli aggressivi striscioni Fiom ci ha pensato Fioroni, andando a trovarlo “con gli ex popolari della corrente dei 75 per dare la sua solidarietà” a tanta vittima. La quale, in realtà, non ha risparmiato insulti verso Epifani e “compagni”. Ancora Fioroni: “evitiamo che i moderati scappino dal Partito democratico. Il rischio oggettivamente, c’è, però saremo noi a garantire che non vi sarà nessuna riedizione del Pci”. E non s’illuda, Casini, pensando che il Pd possa “fare la gamba di sinistra, mentre a fare il centro ci pensano lui e il suo partito”. Domanda dell’intervistatore: “Dica la verità, Fioroni, lei adesso sta parlando a nuora perché suocera, ossia Bersani, intenda”. Risposta tosta: “Logico”
Se il Pd è agitato, il Pdl non sta fermo. Grandi manovre sono in corso per fargli una cura ricostituente: abolizione delle “quote” (nate dall’infelice matrimonio d’interesse con An), rivitalizzo dei coordinatori, eccetera.
Mentre il grande Capo si esercita nel suo gioco vocazionale: prendere a calci spettacolari logica coerenza credibilità...Vìstosi bocciato dal Colle il famigerato Lodo Alfano – nuova edizione (viziato da una cantonata contro l’articolo 90 della Costituzione), spara questa sintetica barzelletta: “A questo punto, si ritiri il lodo, che io non ho mai chiesto né voluto” . Repubblica it si acciglia: suggerisce di non ridere a questa “sfida” del premier, perché sottende un pensierino poco amabile. Questo: dico quel che mi pare, tanto gli italiani sono cretini (o, almeno, una gran parte). Noi ci ridiamo, invece, ma con il già “trilustrico” amaro in bocca. Né si ferma, l’amabile barzellettiere: nel giro di pochi giorni ne ha sparate una decina. Ne ricordiamo ancora un paio. Nel settimanale televisivo Report Milena Gabanelli rivela la storia delle ville acquistate da Berlusconi ai tropici, compresa quella, imponente, nell’isola tropicale di Antigua, intrecciando rapporti poco ortodossi con società e banche (la banca Arner, già sottoposta a ispezione da Bankitalia, per sospetto riciclaggio). La conduttrice ha mostrato fior di documenti, ma lo staff dell’inner cercle (la cerchia intima) del conducator arcoriano è scattata combatta a difesa del padre spirituale. L’avvocato Ghedini-ghigno ha chiesto alla Rai di non mandare in onda Report (mancava il contraddittorio!), il nuovo ministro Paolo Romani ha definito la trasmissione “una puntata francamente odiosa”. E zitti sugli altri sproloqui del coro.
Intanto scoppia la nuova guerra della spazzatura a Napoli e dintorni. Scontri, incendi, toni di sfida, feriti, e, aspettando il morto, l’immancabile sparata di padron Silvio: “In dieci giorni, problema risolto”. Testuale: “Dieci giorni per tornare alla normalità”. C’è per nulla Bertolaso superman? Dieci piccoli giorni, e l’inghippo di anni e decenni sarà sciolto. Intanto sulla stampa corrono titoli come questi del Corsera: Le bombe lungo la strada verso la discarica. Nella notte ancora scontri, cinque fermati. Il questore: è una guerriglia organizzata. “La protesta delle donne che fermano i camion inginocchiandosi. Occupati i municipi di Boscoreale e Terzigno” (20. 10). Rifiuti, i sindaci non firmano. Bertolaso: lo Stato va avanti. “Applicheremo le misure unilateralmente”. Ancora scontri e feriti, sequestrato esplosivo. Il vescovo di Nola. “Non basta congelare la discarica” Insomma, siamo in pieno fermento: da un momento all’altro può emergere il peggio. Cioè, l’eredità di decenni di malgoverno regionale e municipale, di complicità camorristiche, di lassismo criminale.
E qui ci fermiamo, con un pensiero amaro sulla qualità dei nostri politici (le minoranze ammodo non riscattano le masse corrotte o incapaci (non si fermano le scoperte del malaffare): da Lonardi a Scajola, di nuovo in ballo, all’insospettabile Maroni, non c’è che l’imbarazzo della scelta per pescare indagati e sospettati di irregolarità varie.
Allora la nausea ti salta alla gola e magari ti suggerisce un confronto non favorevole ai nostri moderati sazi: c’era più serietà nei casini con la minuscola che ora in quelli con la maiuscola. Quegli ambienti disprezzati (dall’ipocrisia corrente) davano quel che promettevano, senza frodi e vane lusinghe: la serietà dei nostri moderati politici incrementa disoccupazione e cassa integrazione (che, di corto respiro com’è, non risolve il disagio delle famiglie”). Il tutto, mentre continua indisturbata la pacchia dei grossi compensi per deputati e senatori, grandi manager e divi delle tivvù (e perfino dei barbieri del Quirinale). Né si toccano le Camere pletoriche, né lo spasso delle infinite macchine blu, né gli sprechi provocatori delle inutili Province e delle ingorde Regioni. Ma il propagandista della serietà, l’ineffabile Casini, non trova di meglio che attaccare per l’ennesima volta Di Pietro con accuse bizzarre e sognare nuovi governi senza elezioni. Decisamente, c’era più serietà nella “c” minuscola.
Pasquale Licciardello

martedì 26 ottobre 2010

Coincidenze casuali

Dicembre 2004. Il governo berlusconi, noto per avere azzerato gli aiuti al terzo mondo contravvenendo a tutti gli impegni presi (dagli Obiettivi del Millennio delle Nazioni Unite al Global Fund per la lotta all’Aids, dall’Aiuto allo Sviluppo alla Campagna mondiale per la Cancellazione del debito), azzera il debito vantato dall'Italia nei confronti di uno staterello caraibico, Antigua, inserito dall'Ocse nella lista nera dei paradisi fiscali. Peccato che il reddito pro capite di Antigua, superi i diecimila dollari. Come se non bastasse berlusconi si impegna a livello internazionale cercando di convincere gli altri governanti ad essere altrettanto generosi: ovviamente inascoltato.
Settembre 2007. berlusconi compra un complesso di ville ad Antigua con un'operazione finanziaria non proprio adamantina.
Ovviamente coincidenze, pure coincidenze.

sabato 23 ottobre 2010

Pinocchio



"Ma io l'ho già dichiarato che questa legge (il lodo alfano n.d.r.) non la voglio. E lo ribadisco pure adesso. Addirittura sapete che vi dico? Io sono pure disposto a rinunciarci".
silvio b.


Ma le bugie allungano il naso o fanno accorciare le gambe?

giovedì 14 ottobre 2010

Banale, volgare, stupido, ignorante, demagogo.





"Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia".
giulio tremonti ministro dell'economia di un paese disgraziato.

martedì 12 ottobre 2010

Barzellette d'autore

Ci mette in imbarazzo. Si finisce col dubitare dell’uso clinico di questi nostri sfoghi lirici promossi, per pura costrizione tecnica, all’ambizione di articoli politici. Qualcuno dei miei tre lettori sta pensando al premier, cioè all’Uomo che l’ironia sadica del Destino ci ha imposto a sconto dei nostri peccati? Ci ha azzeccato: parliamo proprio di lui, non sappiamo più se detestarlo in blocco, criticarlo politicamente dettagliando, o addirittura ammirarlo. Ma sì, ammirarne la coriacea instancabilità, la faccia tosta a prova di bomba (politico-giudiziaria), l’indomabile attitudine clownesca. Ha appena chiuso un’avventura “bellica” spossante e subito ricomincia a combattere, sparando raffiche di barzellette al cianuro e bordate di accuse lunari alla magistratura, o (come dice lui) a quella sua parte che da tre lustri squalifica come comunista e persecutrice. Di che cosa? Ma della sua specchiata coscienza, naturalmente: di politico e premier di storica rilevanza. E, perché no? anche contribuente da favola: la figliola annunciava giorni fa che la sua famiglia paga al Fisco 2 milioni e mezzo di euro. L’anno? No, e nemmeno al mese: al giorno (sic). Ed eccoci costretti dal suo genio multiforme a sciupare il nostro tempo gustandone battutacce e mirabilia accusatorie.

Cominciamo dalle barzellette in senso stretto. Un ebreo racconta a un familiare...Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria...E quanto era in moneta attuale? Tremila euro...Al mese? No, al giorno... Ah, però...Be’, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace...Scusa un’ultima domanda...tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita? Fine della storiella. Ma non del clamore che n’è seguito. Che dura ancora mentre ne scriviamo. E che non sempre è calibrato sulla “fisiologia” del faceto “narratore”. Troppo serio, per esempio, quello dell’ex presidente delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto, che prende la barzelletta come indice della scarsa coscienza etico-storica degl’italiani: “Non siamo riusciti a trasmettere all’opinione pubblica la gravità dell’olocausto e delle persecuzioni che abbiamo subito [...]Gran parte degli Italiani crede che di fronte all’Olocausto gli ebrei fossero in condizione di mettersi al sicuro”. Non senza integrare con questa (peraltro, opportuna) smentita: “Purtroppo a questa visione falsata hanno contribuito i numeri gonfiati degli ebrei salvati per iniziativa di Pio XII, che in realtà furono una percentuale molto modesta”. Bastava dire che la barzelletta è l’autopresentazione di un bellimbusto privo di sensibilità empatica. Cioè, un uomo per il quale non c’è nulla di “sacro”, d’intoccabile. Insomma, d’indisponibile per le barzellette.
L’altra delle quali torna a punzecchiare un suo dilettevole bersaglio, Rosy Bindi (vedi eroismo del barzellettiere!): Durante una serata danzante un cavaliere va dalla ragazza scelta per ballare: lei si presenta con il nome di un fiore al femminile, l’uomo risponde con il nome del fiore al maschile e si balla. Quindi un uomo si avvicina a una ragazza, “Margherita”. E lui “Margherito”. Poi un altro si avvicina a un’altra ragazza, “Rosa” e lui “Roso”/ Un altro va verso Rosy Bindi, un po’ coperta nell’ombra, lei dice “Orchidea” e si tira in avanti, lui la guarda e dice “Orcodio” (ma La Stampa, da cui, trascriviamo, vela la bestemmia sotto tre puntini). Reazione (un po’ sprecona!) della Bindi: il Premier deve “chiedere scusa a tutti i credenti di questo Paese, alla Chiesa e alla stampa cattolica”. La quale non se lo fa dire, e attacca l’incauto sfottente: Famiglia cristiana, dal suo sito, è la più colorita: “Dal Cavaliere arriva uno dei più chiari esempi di quel ‘cristianesimo alla carta’ o ‘cristianesimo usa e getta’”. E, cristianamente, smaschera lo spudorato: un politico “intriso di sentimenti cattolici quando si tratta di chiedere voti, ma sostanzialmente estraneo al sentire cattolico in ogni altro momento”. Ma la molto apostolica ministra Gelmini garantisce: “Il Pdl è il partito più sensibile ai valori cattolici”.
Postilla. A leggere le reazioni si godono meglio le barzellette incaute. Questo “sentire cattolico”, per esempio, mi fa ricordare l’accoglienza festosa di Benedetto XVI all’incontro con Berlusconi a ridosso degli scandali delle escort e contesto. “Oh Presidente, che gioia!”. Il ricordo vuol dire: niente paura, in partibus infidelium, il voto cattolico non mancherà alle prossime elezioni. Il Paperon dei paperoni sa bene come (e quanto) farsi perdonare dalla santa madre Chiesa: questione di borsa e sborsamenti. Tutto qui. Quanto alla verità effettuale del “sentire cattolico”, basti ricordare le pesanti offese rivolte al premio Nobel Sagrafedo in occasione della sua morte per misurare quella sensibilità evangelica. Insomma, è un po’ barzelletta anche il “sentire cattolico”
Altre critiche di quella stampa. L’Osservatore Romano commenta così la sortita del premier “alcune battute del capo del governo [...] offendono indistintamente il sentimento dei credenti e la memoria sacra dei sei milioni di vittime della Shoah”. L’Avvenire, quotidiano dei vescovi, parla di “insopportabile bestemmia”, di “consunti stereotipi sugli ebrei”; e aggiunge: “c’è una cultura della battuta ad ogni costo che ha preso piede e fa brutta la nostra politica. E su questo tanti dovrebbero tornare a riflettere”, massime se si è “uomo delle istituzioni”, e addirittura “capo del governo”. Su costoro “grava inesorabile un più alto dovere di sobrietà e di rispetto per ciò che si rappresenta, per i sentimenti dei cittadini e per Colui che non va nominato invano”. Sembra l’annuncio di una svolta storica, e infatti la Repubblica ci spara sopra un titolo-azzardo: La bestemmia di Stato ha rotto l’incantesimo. Ma noi rinviamo il lettore alla nostra previsione sul voto cattolico e la borsa “certosina”. Non senza aggiungere una noterella sulla militanza dei media cartacei: su queste e simili esternazioni dei fogli cattolici il quotidiano di Scalfari stende titoloni cubitali: “Offesi i credenti e la Shoah” il Vaticano contro Berlusconi. E il giornale dei vescovi: “ci mancava la bestemmia”. Cui fa eco l’analisi di G. Zizola, strombettante come sopra. La stessa pagina del titolone ospita, un articolino che dovrebbe accendere qualche dubbio su quella presunta rottura: breve testo, e soprattutto piccolo titolo: Fisichella “assolve” il Cavaliere. La Bindi: “Così giustifica la blasfemia”. Secondo l’alto prelato le parole del premier “vanno contestualizzate”. Indi, non esageriamo con lo sdegno e le condanne! Comprensibile la reazione stizzita della Bindi: “Sarò all’antica, ma mi amareggia profondamente e mi turba constatare che per un pastore della mia Chiesa ci sarebbero occasioni e circostanze nelle quali è possibile derogare anche dal secondo comandamento”. Insomma, “barzellette” dall’uno all’altro campo. Lo sono, in certo modo, anche gli sfoghi di certe suscettibilità religiose, cattoliche o ebree che siano. Non diciamo la reazione alla storiella infame sulla Shoah, ma quando si arriva al solito clamore (con richieste di espulsione eccetera) per un Ciarrapico che insulta Fini chiedendogli se ha già “calzato” la biblica kippah, be’ siamo all’eccesso “barzellettistico”. Lo è di meno la cecità pelosa degli stessi clamanti per quel berretto sui crimini di Israele contro le popolazioni civili palestinesi, osando paragonare certi missili buoni a fare qualche buco nei muri al “terra bruciata” di Gaza e relative mutilazioni di bambini da “fosforo bianco” e altre diavolerie di provenienza alleata (leggi Usa).
E torniamo all’imputato major: come reagisce? Secondo il suo stile: scandalo? “E’ soltanto una risata, e lo scandalo, semmai, è di chi la pubblicizza”. Dunque? “Lo scandalo? E’ soltanto un pretesto per attacchi strumentali e ipocriti”. Il solito ribaltamento dei ruoli: il colpevole diventa vittima. Ma le barzellette migliori sono le involontarie, cioè i nuovi complimenti alla magistratura: dove, secondo il Cavaliere, si anniderebbe una vera e propria “associazione a delinquere”. E basta così? Macché: il Cavaliere dalla trista figura sogna “una commissione d’inchiesta” per snidare quella maligna congreca, estirpare quel bubbone infetto. Il progettino in nuce ispira i tg meno faziosi della domenica, e il Corsera del lunedì ride con questo titolo sulle sparate del plurindagato furens: “Inchiesta parlamentare sui pm. La sfida di Berlusconi”. E il bersaglio come risponde? Con signorile pacatezza: “Così accresce la tensione”. O, anche, con lapidaria sobrietà: “Non ci faremo intimidire”. Tutto qui. Qualche consigliori (pardon, consigliere) del Principe boccia la barzelletta: pretesa non prevista dalla Costituzione. E noi la cambieremo, replica con uno dei suoi “pezzi forti”. Ci vuole tempo? Vedremo. Mutevole come un galletto di latta segna-vento, l’inesauribile dice e disdice, afferma e nega a distanza di ore. Il tre ottobre minacciava: i finiani devono essere fedeli (al programma) “ogni giorno o subito al voto”. Il 6 il Corsera stendeva sull’intera pg.5 questo dietro-front del Cavaliere: Richiamo di Berlusconi: basta parlare di urne. Oggi, 7, la Repubblica apre con questo titolone virgolettato (sono parole del Berlù). “No al voto, temo governo tecnico”. L’incipit dell’articolo è l’ennesima barzelletta (del genere: “io? quando mai”). Eccolo: “Elezioni? Mai minacciate, sono sempre stato convinto che fossero un guaio.” Notate quegli avverbi: “mai”, “sempre”. Una vera passione. “Un guaio”: cioè, una minaccia capace di ispirare “un esecutivo tecnico”. E per tentare di zittire Bossi, che continua a gracchiare sul “voto a primavera”, promette mirabilia. Torniamo a leggere nel titolone: Berlusconi: oggi il federalismo, tra due settimane riforma della giustizia. Esternazione che compete validamente con le barzellette strictu sensu. E trascina il premier in un circolo completo. Il Corsera del 12 settembre riassumeva in un titolo perentorio, che è una citazione testuale del Cavaliere tutto-macchie: “Il presidente della Camera? Spero che ritorni in ginocchio” Il “catenaccio” del titolo è la traduzione di un tentativo sonoro di Bossi: Bossi: io sarei andato al voto, ma Silvio e il Colle non vogliono. L’occhiello, più sintetico, è anche più colorito: “Il Senatur evoca Fini e mostra il dito medio. Nel testo l’argomento digitale è conclusione mimica di un sintetico approccio verbale: “Fini dice che la Padania non esiste? Tié! Noi esistiamo e di solito vinciamo le elezioni.” Naturalmente, è quel “Tié” che alza il dito. E poi ci lamentiamo dello scarso umorismo dei nostri politici.
Ma torniamo al presente. L’azione convergente di consiglieri e “calcolatori” (“ho fatto bene a regalare a Silvio un pallottoliere [...] si vede che è servito. Lo vedo improvvisamente tornato in sé”: così Casini), spinge il Giove tonante di pochi giorni fa a questa amara resa al Fato (che, come insegnavano i nostri padri, conta più degli dei): “Basta, con Fini dobbiamo trattare”. Resa condita da questo sospiro, unico residuo esponibile dell’odio attizzato dalla passione istituzionale del Presidente della Camera: “Sono deluso, l’ho trattato per sedici anni come un figlioccio, ora lui mi ripaga così”. Come un figlioccio: voce dal sen fuggita, che evoca il Padrino. Ma forse domani lo Smemorato a gettoni alterni la rinnegherà. Non nel senso che se ne scusa (come è stato costretto a fare Ciarrapico con gli incontentabili ebrei italiani), ma nel senso che negherà di averla pronunciata: altrimenti che barzellettiere sarebbe?
Appena ieri (6. 10) abbiamo visto un Cavaliere in versione “tuona e sbraita”. Ecco titolo e incipit di un articolo del Corsera: “Si accorgeranno presto che non sono finito”: “L’umore è esposto ai rovesci della politica, come il suo governo, ma nonostante tutto sembri congiurare contro di lui, Berlusconi è convinto di portare a termine il ‘progetto’” (Verderami). Ed ecco le parole del premier clamans, anzi le nuove barzellette involontarie: “non mi curo se mi danno del ‘nonnetto’, se dicono che mi sono imbolsito, che sono finito. Se ne accorgeranno presto. Io non me ne andrò fino a quando non avrò dato vita al più grande ricambio generazionale della storia”. Da far tremare le vene e i polsi: che ci voglia trasformare tutti in 50 milioni di robottini arcoriani? Meno male che sono vecchio, e non farà in tempo, con me. Intanto comincia col rabbonire Santa Madre Chiesa (le maiuscole sono in conto Cavaliere) accelerando sul “piano per la vita”, come dire l’agenda vaticana che pretende di strozzare ogni “pretesa laicista”, ovvero ogni traccia di sana civiltà: indi, “campagna contro la RU486, aiuti alle nascite sacralmente corrette, norme restrittive sulla biopolitica, accanimento terapeutico, eccetera. I ministri Fazio (Salute) e Sacconi (Welfare) sono mobilitati. E Tremonti deve lasciarsi spremere qualche soldino per aiutare le famiglie cattoliche a fare figli. Nonché mandarli nelle scuole private cattoliche (come ha fatto Formigoni nella “sua” Lombardia. A proposito, il governatore purissimo è inguaiato per certi brogli elettorali). L’accelerazione serve anche a prevenire slittamenti clamorosi verso il Pierferdi nazionale. E seminare zizzania nel campo di Agramante, cioè dentro il composito Pd che ospita nel suo ventre molle la componente cattolica, sempre rognosa per eccesso di sensibilità vaticana.
Tutto si può dire della nostra vita pubblica, tranne che ci faccia sbadigliare di noia (o di sonno): non si finisce di gustare un evento che subito un altro viene a galla a fargli concorrenza. Nel caso si tratta ancora del Premier, della sua più recente invenzione (mai dire “ultima”, con lui!): i team elettorali(stici). Squadre di ragazzi ambosessi da sguinzagliare sul territorio a fare pubblicità alla santa Causa. Né finisce qui l’inventiva del fantasioso Consiglio dei consiglianti: c’è di mezzo anche un libro. Non è un lapsus: un vero libro. Per fare cosa? Indovinate. Sì, come avete pensato: a far radiosa luce sulle conquiste del regime, pardon del miracolo certosino. Che tradotto in italiano significa: a fare un elenco delle opere realizzate dal governo silvanico. Insomma, un altro bouquet di ghiottonerie barzellettistiche. Perché, come sa la componente non drogata del popolo italiano, quel tale elenco sarà un mostro di millanterie e di strampalate amplificazioni di piccoli risultati, presto sopraffatti e in gran parte cancellati dal ritorno del “rimosso”.
Ecco un altro stop all’invio telematico di questo excursus: “Dossier contro Emma Marcegaglia” Indagati direttore e vice del “Giornale” (Corsera, 8. 10) . E uno dei tanti commenti (Flavia Perina, Il secolo d’Italia): “Quel che è ipotizzato contro la Marcegaglia, cioè una campagna di denigrazione attraverso dossier, il Giornale lo ha già fatto nei confronti di Boffo e di Fini. Evidentemente qualcuno perde il pelo ma non il vizio”. Evidentemente. E queste non sono barzellette, ma pura e distillata verità machiavellicamente effettuale. Le barzellette vengono dalle “esternazioni” dei vari produttori di quel Mondo bacato. La Russa avverte la magistratura: “sappia che non deve dare l’impressione di una censura preventiva, una sorta di condizionamento della libera stampa”. La quale, sottintende Mefisto, deve essere libera fino alla calunnia e al ricatto, quando sono ben mascherate. La barzelletta di Bondi vince tutte le altre uscite da quelle bocche al tossico: “Si tratta di decidere se vogliamo vivere in un Paese civile oppure in una società in cui vengono violate le leggi da chi dovrebbe farle rispettare”. Sottinteso, la magistratura, la solita persecutrice, secondo quel testone curiale, dell’immacolato Idolo e del suo mondo sacralizzato dai troppi Bondi. Cicchitto è sempre quello che pretende di saperne più degli altri complici. “E’ evidente che i telefoni e i telefonini del Giornale e dei suoi redattori erano controllati da tempo”. Peccato che l’evidenza lampeggi da tutt’altra parte, e fa le boccacce alla malafede dei “censori” arcoriani: l’affaire nasce da un sms del vice direttore (Porro) di quel Giornale all’amico Rinaldo Arpisella, “strettissimo collaboratore della Marcegaglia”: vi si annuncia un servizio sulla famiglia Marcegaglia. Segue uno scambio di telefonate che convincono Arpisella di un rischio dossier per la sua “padrona”. La quale va dal procuratore, collegando la minaccia alla sua critica al governo, al quale aveva detto “che stava finendo la pazienza degli industriali”. La signora telefona, anche, a Fedele Confalonieri, che le assicura di fermare la “macchina”. Ma prega anche la signora di “cambiare atteggiamento” verso l’augusta fatica del premier. Mentre il gentiluomo Sallusti querela (sic) il pm di Napoli, Lepore, “per diffamazione”. Le ultimissime prima di spedire sono: la pubblicazione del dossier da parte dell’eroico Feltri (quattro pagine del Giornale!), la figuraccia di don Fedele, la fermezza della presidente di Confindustria: Marcegaglia: vado avanti e non mi faccio intimidire (La Stampa, 9.10), la decisione dei pm, che “ascolteranno Confalonieri come testimone” (senza mollare, intanto, sulle altre misure in corso).
Ecco, dunque, il mondo reale di codesta filibusta politico-giornalistica, che pretende punire i suoi avversari a furia di agguati proditori e montature vigliacche. E che spesso rimane scornata, come nel caso Di Pietro, che si pretendeva sospendere dalla Camera perché parla chiaro, e accusa il premier di “stuprare” la democrazia. Fallita l’offensiva in Aula contro di lui, il Tonino conferma: “Non rinnego una parola. Tornerò a fare un’opposizione ferma e risoluta in aula e ricorrerò a tutte le parole che il vocabolario mi mette a disposizione. Chi utilizza le istituzioni per farsi gli affari propri che altro è se non uno stupratore di democrazia?” Parole fieramente limpide, che non piacciono neppure ad alleati e concorrenti in opposizione politica.
Ma vogliamo chiudere con un’ultima manciata di barzellette involontarie di gentile fattura: l’esibizione della Santanché ad Annozero. Un vero spettacolo: una scolaretta che ripete cavolate colossali memorizzate alla scuola della disinformazione vocazionale. Un caso per metà da ridere per l’altra da meditare sull’insensibilità coriacea di certe figure. Un momento di quella trasmissione: un gruppo di giovani giornalisti calabresi intervistati dal collaboratore di Santoro rivelano le minacce mafiose cui sono fatti segno, con argomenti orali e simbolici, per scoraggiarne i servizi su drangheta e collusioni politiche. Sono ragazzi che rischiano la vita, decisi a non mollare. Tutta la reazione della gentildonna Santanchè fu un diluvio di sparate bugiarde su “questo governo che ha fatto più di qualsiasi altro contro le mafie” e giù cifre di torbida fantasia ripetitiva. Neanche un sospiro, mezza parola di solidarietà per quei candidati a non improbabile morte violenta. E uno guarda quella bocca inesausta, ammira quel labbro sporgente, e pensa a un suo più coerente destino, a un uso più giocoso e innocente.
Pasquale Licciardello

mercoledì 6 ottobre 2010

Margherita Hack

Porci

Pace fatta fra la giunta capitolina e bossi. Il sindaco di Roma, tale alemanno, ha invitato l'amico bossi ad una cena di riappacificazione: polenta, coda alla vaccinara, rigatoni e, tanto per rimanere in tema, porchetta. Sono presenti: il citato alemanno, bossi, l'ineffabile ministro la russa in tenuta mimetica, roberto calderoli (che pare abbia allietato la serata cantando "O mia bella madunnina" in napoletano) e la presidente della regione Lazio, tale renata po(l)verini  che si assume l'ingrato compito di imboccare bossi (vi giuro è vero!). Tante bandiere leghiste e altre con la lupa, nessuna bandiera italiana (deo gratias!). Pare che monsignor fisichella abbia benedetto l'incontro affermando che la frase di bossi sono porci questi romani vada contestualizzata.

martedì 5 ottobre 2010

Contestualizzare

Per monsignor fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, la bestemmia di berlusconi non costituisce peccato in quanto deve essere contestualizzata. Ergo, se vi capita di bestemmiare raccontando una barzelletta mentre visitate una città terremotata, state pure tranquilli: la contestualizzazione vi salva l'anima.
Riportiamo di seguito i dieci comandamenti e le contestualizzazioni che li rendono inefficaci:




1. Non avrai altro Dio all'infuori di me. Se abitate in Italia potete rivendicare due figure divine: una è berlusconi.
2. Non nominare il Nome di Dio invano. Barzellette escluse.
3. Ricordati di santificare le feste. Soprattutto i compleanni delle minorenni.
4. Onora il padre e la madre. Ma anche il padrino.
5. Non uccidere. A meno che non ti chiami bush o berlusconi.
6. Non commettere adulterio. Solo se non ti chiami berlusconi.
7. Non rubare. Immaginate un po'....
8. Non dire falsa testimonianza. Se non ai giudici italiani.
9. Non desiderare la donna d'altri. Prendila.
10. Non desiderare la roba d'altri. Non vale per la casa di Macherio.

domenica 3 ottobre 2010

Parole, parole, parole

Le parole della fortunata canzonetta cantata da Mina ai suoi tempi belli in duetto misto (lei canta, lui recita) con Alberto Lupo si sono presentate stamane alla memoria stanca di accumulare ricordi imposti dalla deriva politica italiana: come scacciarle, quando basta surrogare le azioni negate dal troppo poetico Lupo con le realizzazioni mancate nel chiacchiericcio retorico dei troppi politici-Lupo nostrani? Parole-promesse, parole-annunci, parole-progetti quante se ne vuole, fatti pochi, spesso parziali, spessissimo di pura ostentazione frega-grulli.
Il fenomeno è così eclatante da ispirare interventi più o meno autorevoli sugli inconvenienti prodotti in serie cumulative di opaco destino: oltre ai “classici” Stella e Rizzo, inesauribili pubblici ministeri di un tribunale, ahimè, tutto virtuale (e del tutto impotente a scuotere i verbificatori non stop), altre rispettabili penne si sono cimentate nella denuncia di questo slittamento verbalistico della politica italiota. E taluno si è provato a farne diagnosi storico-culturale non priva di suggestione: il nome che ci viene primo ai tasti è quello di Giovanni Belardelli, autore di un editoriale degno di attenzione: Dire quello che non si fa [titolo] Il festival italiano delle parole vuote [occhiello] (Corsera, 19 sett.). Eccolo, in stretta sintesi. “Molti anni fa un grande storico, Franco Venturi, definì il fascismo come il ‘regno della parola’”, definizione che “si applica altrettanto bene all’Italia di oggi, alla sua vita politica fatta sempre più di formule e di parole, di provvedimenti annunciati con grandi fanfare ma che poi si perdono nei meandri di Montecitorio o Palazzo Madama”. E ricorda proprio Sergio Rizzo che ha elencato parecchi di questi aborti e gestazioni congelate (Corsera, 10 sett.). Quanta eloquenza, per esempio, sulla famiglia, sull’imperativo etico di aiutarne le bisognose! E nei fatti? Poco, anzi “il sostegno effettivo dello Stato alle famiglie ha dimensioni risibili, soprattutto se paragonato alle misure messe in campo da Paesi come la Francia e la Germania”. Uguale destino ha frustrato il proclama su un’equa meritocrazia da introdurre nella scuola e nel mondo del lavoro: il merito è stato onorato soltanto “nel mondo delle parole”, mentre la realtà continua la sua indisturbata marcia su binari allotrii, “i legami politici, familiari, clientelari”. Andazzo favorito dalla pervasività del destino mediatico-spettacolare, che non è solo nazionale. Ma il “di più” che si registra nel nostro Paese è, forse, dovuto secondo Belardelli, alla nostra storia. Rifacendosi alle tesi di uno studioso francese, che divideva le nazioni europee in “classiche” e “romantiche”, collocando le prime nell’azione politico-militare svolta per secoli dalle grandi monarchie, e le seconde nella prevalenza del ruolo culturale, che ne farebbe “un’opera di vera e propria invenzione artistica e letteraria”. Su queste ipotesi, le prime nazioni sarebbero “figlie della realtà”, le seconde “figlie della poesia”. Belardelli, infatuato di questa ardita formulazione, non esita a collocare l’Italia-nazione nella categoria poetica, come “figlia di una lunga storia culturale venuta a contatto nell’800 con l’immaginazione del nazionalismo romantico”. E rinforza la tesi con queste parole di uno storico del nazionalismo: “La messe raccolta da Cavour è quella seminata da Dante”. Di deduzione in deduzione si arriva a una diagnosi sull’oggi parolaio: “L’Italia è nata insomma dalle parole, e non avrebbe potuto essere altrimenti giacché le genti della penisola avevano avuto una storia assai diversa da quella di Francia o Inghilterra. Ma l’esser nati in questo modo ha probabilmente segnato la nostra cultura, ha subito lasciato in eredità al Paese una propensione a vivere prigioniero della dimensione fatata delle parole. Una propensione che le stesse grandi ideologie del ‘900, per definizione poco permeabili ai dati di realtà, avrebbero successivamente alimentato”. Saremmo, allora, condannati a subire una falsa “cultura del fare” di tipo arcoriano o una cultura del riformismo altrettanta parolaia? No, risponde la conclusione: basterebbe una leadership politica capace “di recuperare un rapporto con la realtà e affrontare davvero le grandi questioni italiane”. Epilogo strappato coi denti a un coerente “pessimismo storico”, ma non per questo sorridente al suo contrario: “Purtroppo, almeno per il momento, di leader politici che possiedano una tale capacità non se ne vedono molti”
Un’ermeneutica suggestiva, questa carrellata cultural-diacronica, ma non “verità dimostrata”: un’ipotesi, in sostanza, che coglie qualche elemento della realtà, ma non tutta la realtà. La quale, in ultima analisi, trasferisce tutti i possibili elementi del quadro storico-ambientale davanti all’istanza estrema del dna, versione scientifica del vecchio Fato: come dire, il filtro determinante di ogni condizionamento esterno. E quel filtro cromosomico è rigorosamente individuale. Anche quando dispone nel soggetto una tendenza mimetica spiccata (magari fino a uno zelighismo incontrollabile).
Il che viene a dire che la passione verbalistica dei nostri politici non ha, nelle cause storico-culturali, decisive spinte ma soltanto facilitazioni alla personale tendenza genetica. Come riportare al Risorgimento la furbastra produzione verbale del rematoso e fantasioso Berlusconi? O quella ottusa e sempliciona del beato Bondi che pende dalle labbra e dal cipiglio del suo Capo-idolo? O l’altra, tagliente e cavillosa, del riciclato Cicchitto? Per non parlare del raschiato verbizzare di quel Mefistofele in licenza terrena che tenta di fare il ministro della Difesa inchinandosi toto corde al verbo transatlantico. O del suo gemello ideologico Maurizio Gasparri, che gli dei ce ne liberino! Naturalmente, il discorso si estende all’intero panorama politico, al cui interno, peraltro, s’impone il distinguo e del più e meno.
Un caso rumoroso di parole-azzardo di fronte alla realtà è da mesi in esecuzione incalzante mentre scriviamo (fine settembre): il duello Berlusconi-Fini. Una divaricazione politica sopraggiunta sulla spinta di due dna divergenti, tra i quali la vicenda-lite ha mostrato come possibili solo accordi di corto respiro e complicità di rimozioni a tempo (destinate, cioè, ad esplodere prima o poi). Berlusconi viene da un mondo dove la personalizzazione estrema è moneta corrente: gli affari, l’economia in grande, l’interesse privato e via tacendo (su altre spinte rivelate da pentiti attendibili, e sanzionate, nel “collaboratore” Dell’Utri, da condanne pesanti). Poteva, il Berlù politico, uscire da quella stretta genetica che lo ha portato all’esperienza dei grossi affari? Non poteva, non può, non potrà mai. Ed ecco il parolaio instancabile, il gonfiatore dei piccoli passi a glorie epocali (Napoli spazzatura, l’Aquila sisma, ecc.). E naturalmente l’interesse pubblico sentito come un diverso affare privato, le regole come fastidiosi lacci e laccioli, lo Stato, insomma, e le sue pertinenze, centrali e periferiche, come una delle sue aziende da perfezionare. E la magistratura? Una vera disgrazia, una patologia da curare con farmaci e chirurgia. E via con le parole “alate” lanciate al vento mediale, e avanti con leggi ad personam millantate come servizio collettivo e igiene di una democrazia da aggiornare migliorando.
La crisi con Fini è stata, per mesi, il terreno più fertile per la mala pianta delle parole al vento: insulti, accuse di tradimento e ingratitudine, persecuzione mediatica da parte del premier e dei suoi devoti; rigore formale, rispetto della carica nel presidente della Camera, coerente con la sua conversione democratica, ma non senza qualche arrière-pensèe sul futuro non lontano del Fondatore al tramonto. E quante oscillazioni! Titoli del 1° settembre avevano questa sonorità: “La linea del premier: basta attacchi a Fini”. E in subordine: “slitta la convocazione del collegio [dei probiviri] che dovrà giudicare Bocchino, Briguglio e Granata”, cioè tre dei cosiddetti falchi finiani. Tra molla e tira, sul “processo breve” e altra carne al fuoco, si arriva a questi contrari titoli del 19 settembre: Berlusconi torna a sferzare Fini: dissennato, Italia più debole alla Ue. Ma il titolo dice poco: alla kermesse di Taormina con La Destra di Storace, e tanti nostalgici delle glorie rosso-sangue fasciste, s’è consumato un allegro tiro al bersaglio contro il “cornuto” Fini (così lo gratificò un “reduce di Salò”. Col Berlù ridacchiante di approvazione, che lamentava il suo calo di popolarità all’estero per colpa del cofondatore e della sua “operazione dissennata di fine luglio”. E annunciava, orgoglioso, il premio per il fiero e fedele “destro” catanese Nello Musumeci, “collettore di voti”, promosso sul campo a sottosegretario, mentre il ferrigno Storace sfotteva così: “Questa nostra casa non sarà venduta a nessuna società delle Antille”, tirando in ballo quel pomo della discordia in domo Finii che è l’ex dimora di An finita nell’uso (evoluto a sospetta proprietà) del “cognato”. Né si ferma, Storace, anzi canticchia: “Montecitorio, Montecarlo, Montezemolo: arrivano i nostri del terzo polo”, mentre il Berlù “ride a denti stretti”. Fini, signorile: “io serio, non commento” e i suoi fedeli raddrizzano la “lettura” macheriana dei sospetti alleati verso l’Italia: non è colpa di Fini, ma dell’ambigua politica estera del premier, tutta baci e miele con Putin e Gheddafi. Il premier minaccia elezioni in primavera? Bara, secondo Italo Bocchino finiano duro e puro: “sarebbe il suo suicidio perché senza maggioranza al Senato a Palazzo Chigi ci andrebbe Tremonti”. E forse Fli “tornerebbe al governo”.
I titoli del 23 settembre sono un seguito coerente di questo processo di sgretolamento: le parole in libera uscita volano a stormi, incuranti della realtà: Giustizia, rottura Berlusconi-Fini. Svampa, alla Camera, il “caso Cosentino”: lo spericolato don Nicola è sotto inchiesta per collusione camorristica; si vota sull’utilizzo giudiziario delle intercettazioni rivelatrici: concederlo o no? i finiani sono per il sì, ma la votazione dà un no parcamente maggioritario, prova di fellonia nel “campo di Agramante”. Incuranti del sospetto mercato, i “certosini” cantano vittoria. Ma il duello sulla giustizia si riaccende, e Fini, bersaglio di una nuova ondata di fango sulla casa montecarlina (ora attribuita al Tulliani come proprietà dai fogliacci killer di Feltri, Belpietro e Sallusti), sbotta: “Basta, questa è una porcata, le trattative finiscono qui”. Dietro le “rivelazioni” ritenute false da Fini si celano operatori sospetti: si sente forte puzza di complotto a più teste, pagato dal miliardario ridens di palazzo Chigi. Scatta lo sdegno dei sospettati e la difesa d’ufficio dei capi: insomma, ancora parole-vento (cfr. Corsera 23 sett., dove si leggono interviste ai sospettati del “dossieraggio”e un editoriale di Massimo Franco dal titolo-altalena: Tra sollievo e veleni). In verità, veleni molti, sollievo poco. Ad Annozero il fedele Bocchino ostenta un’aggressiva sicurezza “documentata” sul complotto definendo una “patacca” la lettera inviata da un ministro del ministato isolano intestato all’innocente Santa Lucia. Ma il Corsera del 25 può mettere al centro pagina questo titolo: “La lettera su Tulliani è vera” Parla il ministro di Santa Lucia. Per il governo caraibico la casa di Montecarlo è del cognato del presidente della Camera. Intanto “Fini annuncia un video” a sicura smentita dell’accusa. Così l’incendio cresce in alimenti e scintille, i media più seri “scrivono” sdegno e dolore per il degrado della nostra vita politica. E capita che qualche editorialista si lasci andare al trotterello retorico fino alle iperboli ripetitive e sganciate dalla realtà storica: la presente baruffa sarebbe “una delle pagine più torbide e avvilenti della politica italiana”, e fin qui potrebbe anche andare. Ma Pierluigi Battista sviluppa l’idea aggiungendo questo azzardo cronistico: “mai come oggi macchiata da sospetti, guerre di dossier, insinuazioni, denigrazioni, lotte di potere che finiscono per infangare, insieme, ruoli istituzionali e apparati di sicurezza”. Questi ultimi, si intuisce, oggetto di calunnie. Poveri innocenti! Non basta: quella “opinione pubblica” troppo adornata di sensibilità non solo sarebbe “frastornata da tutto ciò che è accaduto e sta accadendo”, ma sarebbe addirittura “allibita e sgomenta” per questo “avvitarsi sempre più disinibito nei gorghi delle rappresaglie, dei colpi bassi e dei massacri mediatici”. Il trotterello avanza, s’impenna, fra bagliori sulfurei e balzi di smemorata coscienza etica fino a questa magnanima conclusione: “Non resta che tornare indietro e riacquistare, tutti, un profilo di dignità. Per quanto malandata, l’Italia non merita un trattamento simile”. Ed ecco il suggello finale all’enfasi parolaia: quella opinione pubblica sofferente è una concessione alla fantasia che fa il paio con questa Italia che “non merita” maltrattamenti. Ecco, insomma, un campione esemplare di parole sconnesse dalla realtà. La presunta opinione pubblica sofferente è, in verità, una sparuta minoranza impotente. L’Italia è malandata per ben altre piaghe e lo scompiglio attuale fa ridere rispetto all’era democristiana, con le sue stragi terroristiche, il controllo mafioso virente e poco disturbato, lo Stato che con i capi mafia tratta, l’epopea scialacquante di tangentopoli, i servizi segreti “deviati” fino al delitto. E via seguitando. Né l’odierna è salva da ben più gravi magagne (più volte segnalate da chi scrive) che le presenti risse. .
Ma ritorniamo alla singolar tenzone Berlù-Fini. Il promesso video finiano è venuto alla luce: vi si staglia un Fini frenato: dal dubbio sulla lealtà del “cognato”, dalle divisioni interne al suo Fli, dal conseguente indebolimento della sua caratura politica. Indi, promesse e proposte: si dimetterà dalla carica se risultasse bugiardo l’omonimo parente pasticcione. Che, peraltro, continua a negare, sostenuto da un avvocato che attribuisce la proprietà della diabolica casa a un suo cliente, liberando il “cognato”, ma non basta a Fini per sentirsi al sicuro dagli effetti del complotto. Intanto offre al Berlù tregua e collaborazione a difesa del programma e della legislatura.
I titoli della stampa ruotano veloci: la mezza euforia del 27 ridiventa, nel 28, incertezza. L’atteso segnale distensivo da Arcore non arriva a Fini, mentre l’Fli gli si teglia a fette: al cipiglio tosto del Bocchino in campo (e, dietro di lui, degli altri duri, Granata Briguglio ecc.) fa eco dissonante il tubare delle colombe (Baldassari, Menia, Motta, Viespoli) in attesa del “Silvio 29. 09”. Una “nota” colombina diffusa con piglio disinvolto disturba, anzi irrita senz’altro Fini, che replica, dubbioso: “Nulla è scontato, tutto può succedere”. La sintesi problematica si chiarisce in questi termini: “Certo noi non votiamo quello che viene scritto dalla Lega e dal Pdl senza consultarci”. E’ forse chiedere troppo aspettandoci di essere consultati? No, fanno eco i “falchi”. Forse sì, masticano le colombe. “ni”, sembrano pigolare i devoti trepidanti. Che vorrebbero evitare il botto irrimediabile. E Fini li scuote: “Questo è il momento di essere compatti, potrebbero arrivare altri attacchi alla mia persona, ma noi dobbiamo restare uniti”. E Adolfo Urso rafforza: “Deve apparire in qualche modo che non siamo figli di un Dio minore”. Insomma, l’Fli non vale meno del Pdl residuo, e nemmeno l’Mpa di Lombardo”. Come farebbero senza “la terza gamba” (appunto, l’Fli) “a rendere stabile ed efficiente la maggioranza”? Ma intanto la Certosa tace. E il suo piccolo nume suda fatica a stendere il testo per il gran giorno di domani, 29. 09. E alimenta i sospetti col suo mutismo non casuale. Insomma, l’aria politica è più mobile e sadicamente ludica di quella meteo, che così spesso burla i tecnici del suo controllo. Non bastasse il grande capo, a seminare sospetti dentro l’agitato Fli ci si mettono anche le trepide colombe (immacolate, come le loro piume in vista o con qualche macula nera sotto quel candore?) ad alimentare fuocherelli di truci sospetti: è del tutto fuori luogo (pensano) temere che il Bocchino furens abbia il retropensiero di far fallire la trattativa? E “per questo alzano tutti i giorni l’asticella”?
Ma la situazione è più mossa che mai: la spinta dei sospetti non risparmia nessuna ipotesi. Il giorno sembrava chiudersi nella riposante certezza della buona volontà reciproca (niente “fiducia”, solo mozione, eccetera), invece a non tardissima sera ricompare la sfrattata fiducia. E’ l’effetto paura, insinuano gli avversari dai loro portavoce: il premier non è sicuro della lealtà degli acquisti (“al mercato delle vacche”, insinuano nell’area centro-sinistra). Né, tantomeno, dei ribelli del Fli. E stamane i giornali sparano titoloni a tutta pagina. Il premier mette la fiducia: scelta di chiarezza (Corsera, pg.). Ridondante, il maggiordomo di Palazzo Paolo Buonaiuti precisa al superlativo logico: “E’ una scelta di assoluta chiarezza e di totale trasparenza”. Gli fa eco un altro maiuscolaro: l’occhio più che mai lampeggiante, Ignazio la Russa assicura che quello del Berlù sarà un discorso “di alto profilo”, cioè da premier “innamorato del bene dell’Italia e degli Italiani”. Perché la fiducia? Ma è ovvio: per “offrire agli italiani scelte chiare”, eroicamente sfidando il rischio di mancare il bersaglio di un maggior numero di consensi. Dubbio che non affligge il ministrino degli Esteri, Franco Frattini, il quale, fiducioso, assicura: “Abbiamo fatto i conti, avremo la fiducia anche senza i finiani”. Una vera pioggia di voti: “avremo alcuni voti che già c’erano, altri che tornano a casa, altri che si aggiungono”. E per rintuzzare le insinuazioni dei maligni che parlano di “calciomercato”, aggiunge: “Non abbiamo né proposto, né offerto, né accettato spostamenti in cambio di qualcosa”. Vedi aderenza verbale alla realtà fattuale! A chi ciancia di “debolezza” e paura, il ministro dell’Interno, Maroni, sbuffa: “ma quale debolezza, semmai è il contrario, è un atto di correttezza istituzionale nei confronti del Parlamento”. Meno convinto l’altro leghista, Calderoli: “Fino a ieri dicevo cinquanta e cinquanta, oggi dico venticinque che si va avanti e settantacinque che si va ad elezioni”. Italo Bocchino non enfatizza: giudica “la scelta della fiducia” “un fatto positivo perché rende il passaggio parlamentare più chiaro”. Ovvio che una decisione pro o contro dell’Fli dipenderà “dai toni e dai contenuti delle parole del premier”. Ovvio.
I famosi cinque punti dello storico discorso sono questi: la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, il Fisco, la sicurezza. Per ognuno di essi, mirabilia seccundum quid: riforme risorse rimodulazioni e riguardi (meno tasse) tutte “r” da verificare con altre di asprigno rigore: futuro serietà coerenza aderenza (alla realtà).
E venne il giorno destinato alla Storia. A precedere l’attesissimo discorso del premier sale all’italico cielo divertito qualche voce dal sen fuggita dello stesso autore: disgustato dall’intonation del testo troppo conciliante, quasi umile, imbanditogli dai consiglieri, il Berlù storce il muso ed esterna in questi eroici termini: “Vorrebbero che leggessi tutte queste ipocrisie. La politica è ipocrita”. Un mezzo benservito ai Letta Buonaiuti Cicchitto e simili autori del testo. Ed eccoci, finalmente, al discorso: pacato, ma non impaurito. Una cascata di promesse, more solito sui 5 temi. Le repliche al Verbo sono quanto mai varie, con talune verità urticanti (Casini, Bersani...), un girovagare cauteloso di colombelle sparpagliate; e un eccesso di verità pudenda tradotta in dipietrese: “Signor presidente, lei non è un capo di governo, ma lo stupratore della democrazia”. Il botto torse il volto del Bersaglio verso l’alto seggio della Terza carica, e Fini richiamò Di Pietro. Ma “non gli tolse la parola”, lamentò, poi, il Berlù. A volersi concedere un momento di ebbrezza goliardica, si può affermare che la seduta fu ricca di movimento e colore mediatico.
I commenti dei giornali hanno tutti il tono della Stampa, che mette nel titolone centrale questo paradosso: C’è la fiducia, ma si pensa al voto. A chiarirlo provvede il “catenaccio”: “Finiani e Mpa decisivi per Berlusconi”. E Bossi ritorna al suo estivo refrain: “Erano meglio le urne”. L’aritmetica gli dà ragione: il governo ha avuto 342 sì, ma con l’apporto dei “futulisti” (come La Russa chiamò i finiani). Il quantum richiesto era 309; senza finiani e Lombardo il governo ne avrebbe avuto 307. Ecco, allora, i commenti di strana apparenza ma di fondato movente: sulla Stampa Marcello Sorgi sviluppa in un chiaro editoriale questo titolo: Ha vinto eppure ha perso. Un segnale delle difficoltà in attesa è la dichiarazione di Fini: fondiamo il partito. Condita dalle riserve dei seguaci su giustizia, Sud, e via suonando. Insomma, il premier è un’ “anatra zoppa”: dipenderà da Fini e Lombardo. la campagna acquisti non lo ha liberato dall’incubo, e lui ce l’ha con i collaboratori che hanno sbagliato i conti.
Conclusione interrogativa: quanto durerà la risicata concordia discorde?

Paquale Licciardello


sabato 2 ottobre 2010

barzellette

silvio 1. Quale posto migliore per raccontare barzellette idiote, sessiste e stupidamente blasfeme dell'Abruzzo devastato dal terremoto?



silvio 2. L'amico degli Ebrei.